Il video come mezzo espressivo … raccontaci.
Beh, il racconto comincia da lontano. Io non provengo da una formazione artistica e mai avrei pensato di lavorare nel mondo dell'arte. L’uso del video come mezzo di narrazione è arrivato dopo una lunga ricerca che pone le sue basi nella necessità di raccontare eventi devastanti come quelli di Genova del 2001. Fino ad allora avevo usato la fotografia per passione perché la mia professione era legata alla progettazione socio-economica. Ma lì, in quegli spazi urbani, in mezzo a quelle persone e a quelle tensioni ho realizzato che il mio bisogno di espressione aveva bisogno di un mezzo diverso e da lì ho iniziato a pensare al video come strumento di narrazione. Successivamente ho sentito l’esigenza di formarmi in maniera mirata e circa dieci anni fa mi sono diplomato come regista documentarista. Poi, cinque anni or sono, ho deciso di passare alla sperimentazione nel campo della produzione video artistica. Laboratoire Italie, il mio primo lavoro videoartistico è del marzo 2011.
La video art come mezzo artistico … qual è il tuo punto di vista?
Sono passato alla videoarte provenendo dal mondo del documentario cinematografico per un’esigenza interiore. Concepisco la videoarte come una serie di immagini in movimento. Gli spazi che le immagini in movimento lasciavano alle mie emozioni erano maggiori e potevo rappresentare con più completezza il mio panorama onirico. Ovviamente non potevo fare a meno di portare in questa nuova avventura il mio bagaglio professionale che ha finito per contaminare in maniera decisa il mio approccio al genere. Io ritengo che la contaminazione, come qualsiasi sincretismo, non sia di per sé un fatto negativo o positivo. Semplicemente accade perché è inevitabile che la creatività delle persone si esprima in modalità anarchiche e tenda a travalicare i limiti imposti. Poiché per definizione la creatività va a ricercare, e talvolta a formulare, connessioni nuove che in quanto tali non sono ancora previste dalle regole di una disciplina o di una corrente.
In Italia alcuni elementi innovativi, come la presenza di una base narrativa più o meno evidente, vengono ancora visti da alcuni cultori della materia come dissonanti, disturbanti e non precisamente centrate sul genere. In realtà, dal confronto con colleghi e artisti di altre discipline contigue, una visione del genere troppo restrittiva risulta per alcuni limitante a livello creativo. Per questo forse il mio percorso è iniziato immediatamente dall'estero per poi ritornare ospite in Italia dopo almeno tre anni. Di fatto il video è a tutti gli effetti uno mezzo artistico versatile, un materiale con cui dare forma a un'idea, esattamente come il pennello e la tela per il pittore. Tutto dipende da come usi tecniche e materiali.
Tre film che influenzano sensibilmente il tuo lavoro … e perché?
Sono un cinefilo incallito quindi mi lascio contaminare facilmente dalla produzione cinematografica anche quella più popolare. Il mio lavoro però è stato fondamentalmente influenzato dal mondo del cinema documentario e posso ricordare alcuni titoli e autori che sono stati anche tra i miei maestri.
Michael Glawogger, recentemente scomparso per una malattia contratta durante il lavoro. Da lui ho imparato moltissimo sia dal punto di vista della relazione con i soggetti ripresi sia dal punto di vista dell'estetica del video. Mi ha insegnato che un documentario anche di tema sociale non deve necessariamente trascurare la fotografia o accettare un livello qualitativo visivamente mediocre. In particolare mi hanno influenzato due suoi film molto belli per il contenuto e magistrali per la fotografia: Megacities del 1998 e Workingman's Death del 2005. La sua è una narrazione asciutta con una magnifico equilibrio tra la dimensione estetica e contenutistica.
Un altro autore che ha segnato molto il mio percorso cinematografico è Sergei Dvortsevoy di cui ricordo fra i suoi lavori Dzień chleba (Il giorno del pane del 1998) per la capacità di osservare la realtà superandone i limiti e contaminandola con la finzione. Elliott Erwitt diceva della fotografia ha poco a che fare con le cose che vedi quanto piuttosto col modo in cui le vedi. Per il documentario vale la stessa identica cosa: Dvortsevoy ha un modo di osservare le cose che è crudo e ingenuo al tempo stesso, rispettoso e spietato. È esattamente questo che mi affascina: la totale assenza di retorica, la profonda compresenza alle cose che accadono senza alcun intento giudicante o moraleggiante.
Tre artisti che influenzano o hanno influenzato il tuo lavoro … e perché?
Nel 2011, l'anno in cui ho iniziato il mio effettivo percorso artistico, fui letteralmente travolto dalla bellezza di alcune opere esposte al Museo di Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Quell'anno i curatori riuscirono a portare in Italia una mostra straordinaria dal titolo “Moving Image in China 1988 – 2011” che ripercorreva la storia della giovane videoarte cinese. Per me fu un colpo di fulmine con autori come Yang Fudong, Chen Chieh-jen e Wang Jiangwei. In quella mostra scoprii che potevo raccontare quello che sentivo utilizzando un linguaggio molto vicino alla mia sensibilità ma soprattutto vicino alla mia formazione cinematografica. Opere come Factory del 2003, Symtom del 2007 e Yejiang-The nightman cometh del 2011 furono per me illuminanti. Rimasi molte ore ad osservare queste opere studiandole e facendole mie un po' alla volta. Tutto il mondo asiatico esercita un forte richiamo su di me anche se non posso evitare di citare autori cinematografici come Lech Majewski, Andrej Tarkovskij e Aleksandr Sokurov, veri mostri sacri, le cui opere continuano ad insegnarmi ogni volta che le rivedo, sia per la fotografia che per la tecnica cinematografica.
Tecnica, stile e pensiero. In che misura sono presenti nel tuo lavoro e come convivono?
Il pensiero è alla base di tutto il mio lavoro. Prima di diventare fattivo ogni mio progetto si alimenta di suggestioni finché raggiunge una stadio, per così dire, di maturità. È a quel punto che comincio a scrivere. Si appoggia tutto su un terreno ricco di stimoli culturali e politici che trovano luoghi fecondi nella mia quotidianità, nella condivisione con la mia compagna, i mie amici più stretti e i miei colleghi. Lo stile che mi caratterizza si è formato con gli anni, in modo praticamente inconsapevole. Questo stile, di cui tutt'oggi non riesco a delineare i confini, ha trovato ancora più forza con l’arrivo di Ilaria Sabbatini la mia direttrice della fotografia. Con lei la produzione delle opere ha trovato una nuova strada visto che il suo immaginario, seppure diverso, è in sintonia con il mio e le atmosfere che voglio ricreare nei miei film le appartengono sia nella dimensione onirica che nella dimensione emotiva. La tecnica viene a seguire. Dopo tutti questi anni di pratica professionale la tecnica di ripresa emerge quando necessario: dopo aver impostato visivamente una scena so praticamente per istinto se devo scegliere un movimento o un altro della macchina, oppure puntare sulla staticità. In fondo di questo si tratta: immagini in movimento. Alla fine tutto diventa componente essenziale di un processo alchemico che mi conduce alla realizzazione delle mie opere ed è difficile scomporre i singoli pezzi che si vanno incastrando reciprocamente mano a mano che la storia prende vita e forma.
Quali sensazioni fanno scattare la molla narrativa nelle tue opere?
Sono una persona che fa la spesa dal fruttivendolo, compra il giornale e beve il caffè nei bar di un paese di provincia. Il quotidiano mi affascina, tutto quello che lo modifica entra nella mia attenzione generando quelli che io chiamo “fantasmi visivi”. L’arroganza, la violenza, il sopruso si esplicano in tante forme e talvolta questo coinvolge persone a me vicine, amici o conoscenti. Quello che succede in piccolo rispecchia i fenomeni di grande dimensione ma le dinamiche sono sempre le stesse. Queste alterazioni inducono nella mia immaginazione visiva reazioni molto pronunciate che mi spingono a raccontare. Io amo guardare ponendomi nelle zone di confine dove il grigio sembra uniformare la natura delle cose ma è li che spesso l’animo umano manifesta le sue degenerazioni ed è li che mi interessa lavorare.
La video art oggi in Italia … qual è la tua opinione?
Non so bene come procede e come si sta sviluppando perché non mi pongo il problema dell'Italia. Nel 2011 solo l’Università di Bologna si interessò ai miei lavori quindi da allora sono rimasto fedele alle persone, ai colleghi, ai collaboratori e non alla nazione. Il mio lavoro viene sempre esposto all’estero e poi forse in Italia ma da molto tempo non è più un problema. Sono ovviamente felice, e sono grato, quando si scrive del mio lavoro come nell’ultimo libro di Elena Marcheschi o in quello di Maurizio Marco Tozzi ma il mio interesse è soprattutto concentrato sulla produzione e sulla diffusione delle opere. Questo significa che non mi interessano solo le mie opere ma anche quelle dei colleghi. Ecco il motivo per cui ho cofinanziato, insieme a Ilaria Sabbatini, un'opera video del collettivo Con.Tatto (Francesca Leoni e Davide Mastrangelo) perché apprezzo il loro lavoro e ritengo che siano un esempio di professionalità e creatività.
Considerando l’evoluzione tecnologica … come si evolverà secondo te la video art?
La video arte è sperimentazione: i veri limiti stanno dentro di noi non nei mezzi. Riscontro a livello internazionale un grande fermento di idee e di tecniche che oggi vengono raccolte sotto un’unica voce. Per quanto riguarda l'evoluzione tecnologica dobbiamo pensare non solo a quella informatica e digitale ma anche a quella dei nuovi materiali. Pensiamo al cambiamento che ha portato l’uso dei led nelle illuminazioni dei set o alla possibilità di poter registrare dei video con delle macchine leggere come quelle fotografiche. Quindi io intravedo grandi possibilità se ci saranno persone e artisti pronti a coglierle.
Parlaci dei lavori che ti hanno dato maggiori soddisfazioni …
Non saprei quale scegliere, tutte le opere appartengono ad un momento particolare della mia vita e tutti i miei lavori hanno contribuito alla mia crescita. Quando arrivo a realizzare un'opera per me è una specie di catarsi, concentro lì le mie angosce e i miei stati d'animo. Ogni opera che realizzo, a prescindere dal gradimento del pubblico, rappresenta una fase del mio percorso. The cage è l'ultimo lavoro in ordine di produzione. È una riflessione sulle gabbie create, autoindotte, generate dal sistema sociale ma in realtà è un racconto tutto personale sulle mie gabbie e sui miei limiti. Questo lavoro è attualmente in mostra a Patrasso sotto la curatela di Silvia Grandi ma nei prossimi mesi andrà in biennale in Messico e poi in Argentina, a Buenos Aires. Questo video si sta avviando ora ai concorsi internazionali e sta ricevendo un'ottima accoglienza. Ho investito molto in questa opera in termini di energie fisiche e mentali ma è stata un'esperienza estremamente interessante perché ho lavorato a set aperto e ho coinvolto molti dei miei colleghi e amici che lavorano in ambito artistico. Di conseguenza la produzione è stata una sorta di cantiere collettivo dove in ogni momento ho lavorato sotto gli occhi di altre persone.
Quale credi sia il ruolo dell’artista contemporaneo?
E’ una domanda molto complicata e forse la risposta è davvero più grande di me. Che ne siamo consapevoli o no, penso che alla base di ogni società ci sia la cultura. Se gli artisti fanno parte della società, essi possono contribuire alla sua crescita producendo cultura. La produzione culturale è una sorta di confronto che gli artisti stabiliscono con i propri referenti. Questo non significa che chi produce cultura debba vedersi riconoscere un'investitura metafisica o un ruolo preferenziale nella società. Semplicemente considero gli artisti come degli specchi che mettono a disposizione una superficie in cui tutti possono riflettersi. Chi si relaziona con l'opera d'arte, che una volta divenuta tale sfugge al controllo dell'artista stesso, può riconoscersi o non riconoscersi ma ha la possibilità di osservarsi. Il discorso è valido per tutte le espressioni artistiche però poi succede che nei fatti si tagliano finanziamenti alla cultura e all’arte. Dunque a quel punto non possiamo sorprenderci più di tanto se poi arriviamo a situazioni in cui si lamenta la perdita completa della propria identità culturale. L'identità culturale è una spinta verso il futuro, verso quello che decidiamo di essere: se smettiamo di confrontarci attraverso la cultura perdiamo la cognizione di quello che siamo come collettività. Ricordo quando a noi cittadini ci fu detto che «Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia.» Ecco abbiamo le prove che forse dobbiamo lavorare molto in questo paese.
© Annarita Borrelli
Copertina: ritratto di Ilaria Sabbatini