Elisa Rossi, come nasce la pittura?
La mia pittura nasce da un percorso maturato all’interno delle aule dell’Accademia di Venezia. Inizialmente rappresentavo ciò che mi era familiare: la mia casa, le mie cose, mia sorella. Le mie tele consistevano in una riflessione riguardo il rapporto esistente tra la figura femminile e gli ambienti intimi che favoriscono un dialogo più profondo con se stesse e la pienezza della propria presenza. Nel tempo l’interesse per il corpo e il realismo sono rimasti, ma ultimamente mi lascio influenzare soprattutto dalle mie letture o da suggestioni che provengono da altrove piuttosto che dal vissuto personale.
Moltissimo, e’ difficile rimanere indifferenti davanti a tanta bellezza. A Venezia tutto e’ Arte. Dalla Tempesta di Giorgione alla Biennale. La sua storia e la sua unicità ne fanno una fonte di ispirazione inesauribile.
La tua è una rappresentazione di una certa quotidianità velata, cosa ti affascina di tutto ciò? Nella tua esplorazione e rappresentazione dell’universo femminile, spicca il legame con il pensiero ed il corpo della donna. Parlacene un po’.
Le protagoniste dei miei dipinti ad olio sono donne che si perdono in azioni riservate, che si prendono cura del proprio corpo nel momento atteso e cercato della solitudine, amica e complice della riflessione: e’ il momento dell’estraniazione, che favorisce un dialogo più intenso con la propria persona e con la pienezza della propria presenza. Sono donne coscienti della loro fisicità ma convinte di essere al riparo da sguardi indiscreti. Nessuna volontà, quindi, di relazione con esterno. Sono chiuse e assorte nel loro mondo e lo custodiscono gelosamente. Per queste donne il ritiro nella stanza da bagno e la preparazione del proprio corpo al mondo esterno rappresenta un’ attività complessa e prolungata perché costituisce il pretesto per un incontro privato con se stesse. E’ qualcosa di simile ad una celebrazione religiosa, un momento di silenzio, di riflessione, di sacrale ripetitività. Il filosofo Riccardo Caldura nel testo scritto in occasione della mostra Mon chèri le definisce “Monadi, senza porte o finestre, che non possono volgersi verso un qualsivoglia esterno, spazialmente inteso, e nemmeno verso un altrove temporale. Sembra che queste figure pronuncino, senza muovere le labbra o cedere alla tentazione di un qualsivoglia gesto, un garbatissimo, quanto inequivocabile, diniego”. Personalmente mi piace molto l’espressione “intimità velata” che hai usato nella domanda. Proprio in questo periodo sto dipingendo una nuova serie dal titolo Limine in cui le figure velate tornano spesso. Il velo e’ il simbolo della piena concentrazione su di se, dietro ad esso la figura appartiene tutta a se stessa, trattenuta e potente e, nel giusto modo, distante e protetta.
Nella costruzione dei tuoi lavori usi modelle? E se si, quali sono le caratteriste che tendi a scegliere per la tua arte?
Quando ho intrapreso questo tipo di ricerca avevo bisogno di dipingere ciò che conoscevo e che mi circondava, e’ stato naturale guardare a mia sorella. Raramente ho affrontato il tema dell’autoritratto, spesso chiedo ad amiche di posare per me. Non sono la riconoscibilità o le caratteristiche fisiche del soggetto che ricerco. Spesso i volti sono in ombra o esterni al dipinto. Mi interessa di più la composizione dell’immagine o come il corpo si inserisce nello spazio.
Quanto c’è della tua personalità nel tratto delicato che caratterizza le tue opere?
Tanto, ma credo non possa essere altrimenti.
Tra gli aspetti che contraddistinguono la tua arte, emerge la plasticità nelle forme. Da cosa nasce questo aspetto?
Sono affascinata dalla luce, da come si posa sulle forme e le valorizza. Spesso scelgo per le mie scene un’illuminazione barocca e teatrale per donare una dimensione atemporale in netto contrasto con il contesto quotidiano che le caratterizza.
Il tuo sembra essere un occhio cinematografico; considerando tutti i generi e gli artisti del mondo del cinema, quali preferisci e perché?
Più che al cinema, la mia pittura e’ strettamente legata alla fotografia che sfrutto ampiamente come ausilio e mero supporto alla ricostruzione mentale. Mi piacciono molto le ricerche intime di autori come David Hamilton o Nan Goldin.
Come si lega il classicismo insito nelle tue opere con la contemporaneità?
Facendo dell’ “inattualità” la mia forza. Pratico, in modo sempre più personale, una pittura classica che volutamente cerca l’allontanamento dai condizionamenti e dettami stilistici del momento
Quale credi sia il ruolo dell’artista contemporaneo?
Oggi il sistema dell’arte ci ha abituati a definire l’artista soltanto come “uno che ha delle idee”. La manualità sembra essere stata dimenticata a favore della comunicazione, ma l’arte deve essere poesia visiva ottenuta attraverso la magia del mezzo. Credo che il compito dell’artista contemporaneo sia quello di tornare a sporcarsi le mani recuperando anche una certa componente artigianale e tecnica, intesa come conoscenza.
© Annarita Borrelli