Giorgio de Finis, perché l’arte?
Perché è una istanza di libertà, perché è inutile e perché è un fare e un pensare divergente.
Come ti definisci rispetto alla tua posizione nel mondo dell’arte contemporanea?
Innanzitutto un intruso. Ma lo sono tutti, d’altra parte. Non c’è la patente di artista. Non amo essere confinato in un mestiere (anzi, per dirla tutta, non amo proprio i “mestieri”); comunque nel cv scrivo antropologo, artista e curatore indipendente. I miei sono progetti artistici, dispositivi d’incontro, opere che prevedono la partecipazione di altri artisti, e quando mi occupo di questa relazione (e non del dispositivo) posso dire che faccio il curatore.
Hai riferimenti di personaggi del passato da cui trai particolare ispirazione?
Il passato è il terreno solido su cui poggiamo i piedi, ma poi bisogna saltare. Provo sempre più spesso il desiderio di liberarmi della zavorra del mio bagaglio culturale. E questo è più facile quando il fare precede il pensare.
Secondo te, quali sono le modalità con cui l’arte oggi potrebbe influire anche su aspetti sociali legati alla contemporaneità?
Sono convinto che l’arte possa contribuire a cambiare il mondo. Abbiamo raccolto in un volume di oltre mille pagine alcune ricette… ma appunto la ricetta è che non ci sono ricette. E questo non vuol dire rinunciare, ma al contrario sapere che si deve sempre conservare la capacità (che vuol dire vitalità, fantasia e l’immaginazione) di cambiare le carte ogni volta.
Sei stato sempre aperto alle collaborazioni, ma quali sono a tuo avviso le prerogative per una buona collaborazione nel mondo dell’arte?
Innanzitutto quelle alla base di qualunque relazione, il rispetto per l’Altro, la capacità di ascolto e il sapersi mettere nei panni altrui. Poi una qualche comunione di intenti, e la onestà di questi ultimi.
Il MAAM, parlacene brevemente…
Il MAAM è il primo museo “abitato” del Pianeta Terra. Marc Augé lo ha definito un “super-luogo” e Cesare Pietroiusti un museo “reale”, un museo ospitale, multisensoriale, dove arte e vita convivono sotto lo stesso tetto, come nelle grotte di Lascaux. È una collezione e al tempo stesso un’opera unica, un grande assemblaggio a scala urbana, una cattedrale laica del comune.
Quali caratteristiche dovrebbe avere un museo contemporaneo oggi?
Dovrebbe essere una piazza, meglio una “casa”, un luogo dove incontrare l’arte (ma mentre si fa) e soprattutto incontrare gli artisti. Uno spazio vivo, gratuito, pubblico. Che agisca come un incubatore di nuove mutazioni. Una grande macchina relazionale in grado di operare in condizioni di attrito minimo e che si ponga come obiettivo la trasformazione di chi la attraversa e non lo svago del visitatore.
Qual è secondo te il ruolo dell’artista contemporaneo?
Un antidoto all’omologazione e alle istanze disumanizzanti che ci stanno spingendo in un vicolo cieco. L’arte come la scienza è un’attività disinteressata, fa parte del nostro essere uomini, e essere uomo non ha nulla a che vedere con quella caricatura rappresentata dall’homo oeconomicus.
Qual è secondo te il ruolo del curatore contemporaneo?
Curatore non è un termine che amo, anche se per comodità lo utilizzo anche io. Ha troppo a che fare con una idea “ospedaliera” del sistema dell’arte, coi musei asettici e le gallerie-cliniche, il white cube, organizzati in “reparti” dove sono custodite come fossero delle patologie le varie manifestazioni dell’arte, ordinate e classificate. Un po’ critico, un po’ manager, un po’ comunicatore, spesso il curatore è solo una figura ingombrante, un intermediario di cui sarebbe meglio poter fare a meno. Che poi è quello che sta succedendo.
Lo staff di ignorarte